Filippesi 2:6
Eccoci giunti all'ultima scrittura a sostegno della frase del concilio trinitario che stiamo prendendo in esame e che parla della natura del figlio.
In greco suona più o meno così:
"Che in forma di Dio esistendo (o essendo) non rapina reputò lo essere uguale a Dio"
Una delle parole chiavi è arpagmos che può assumere due significati:
Alcuni interpretano αρπαγμον come res retinenda, cioè
come tesoro da trattenere gelosamente, mentre altri traducono αρπαγμον come res rapienda, cioè
come bottino o preda da afferrare con violenza.
Esaminiamo cinque versioni che fanno da base a centinaia di traduzioni parallele che si appoggiano ad esse:
1) (La bibbia di Gerusalemme) "il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio;"
(La bibbia di Gerusalemme 2008) egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio"
nota degli editori:
2,6-8 Gesù Cristo, in forza della sua originaria uguaglianza con Dio, avrebbe potuto rivendicare un’esistenza umana gloriosa. Ha scelto, invece, di condividere la condizione umana restando, nella umiliazione della morte, fedele a Dio.
I traduttori della bibbia di Gerusalemme hanno interpretato "essere nella morphè di Dio" come l'avere la natura di Dio,oppure l'avere la condizione di Dio, come poi ebbe la condizione di servo (morphè doulou).
A tal proposito ci sono diverse teorie che invito a leggere (basta fare una seria ricerca sulla parola morphè e sui suoi significati in epoca neotestamentaria), comunque in base a tale versione, Cristo per natura Dio, non ritenne come un tesoro geloso questa sua uguaglianza col padre ma...
Personalmente accetto meglio la traduzione "di natura divina" rispetto alla letterale "essere nella forma di Dio" perché sembrerebbe che mentre Gesù' si faceva Uomo sia rimasto un qualche suo abito/forma dismesso dalle parti di Dio Padre...
Quindi 'forma' può' essere riferito solo all'uomo:
Gesù' assunse la forma di uomo OK: ma lascio' la forma di Dio?
NO (non c'è scritto infatti) ecco perché lo scrittore usa
'manifestare' ecco che Dio e' la' dove e' (cioè' e' e basta perché non ha un luogo o uno spazio) e invece nello spazio/tempo Dio si manifesta, cioè' diventa agli occhi dell'uomo visibile, meglio sentibile'.
A proposito di morphè un mio dotto amico scrisse:
"Io non capisco proprio come si possa anche solo pensare che morphe in quel contesto sia la forma esteriore, anche perché c'è subito dopo una contrapposizione tra l'essere "in forma di Dio" e l'assumere la condizione di servo. E poi, che forma esteriore potrebbe mai avere Dio? Come gli si può attribuire una forma che lo circoscriva o un aspetto? Non ha confini, non ha un esterno che lo delimiti e che gli dia una “forma” nel senso moderno del termine.
Morphe in greco ellenistico e nelle discussioni di natura filosofico-teologica è sinonimo di eidos, cioè indica la struttura interna di qualcosa. Il riferimento ovvio è ad Aristotele. Non c’è bisogno di fornire delle prove di quale sia il significato di morphe, chiunque abbia dei ricordi anche solo liceali di filosofia sa benissimo cosa si intende con questo termine dopo Aristotele. Ovviamente qui non si tratta di cadere nella trappola “filosofia e anti-filosofia”, come se Paolo fosse stato aristotelico, ma di dire che nel lessico usato per le questioni di teologia in greco ellenistico la morphe di qualcosa è l’eidos di qualcosa, la struttura organizzatrice interna che si riflette ANCHE all’esterno."
A proposito di questo commento, il grande biblista Bultman scrive:
Questa impostazione contribuisce notevolmente anche alla
comprensione o meglio al tentativo di comprensione della Trinità:
Dio e' uno, nella sua natura in quanto è fuori dello spazio-tempo, ma le tre ipostasi che lo compongono sono evidenti nelle sue manifestazioni nello spazio/tempo nel quale rivela le personalità di ognuna delle singole persone divine.
La sacra bibbia di mons. Garofalo in 3 volumi aggiunge al riguardo:
«Il senso, in sostanza, è che Cristo non tenne o non aspirò alle prerogative divine (uguaglianza con Dio) alle quali aveva pure diritto in forza della sua natura. Naturalmente si tratta di rinuncia a manifestarle all’esterno»
Don Giancarlo Apostoli approfondisce il senso esposto da Garofalo in questo modo:
"Si può parafrasare così il senso del testo greco:
«Benché (una volta incarnato) egli continuasse ad essere Dio come il Padre, non volle affatto far valere (durante la sua vita in terra) questa sua pari deità col Padre a proprio vantaggio, quantunque si trattasse di cosa legittimamente sua, ma vi rinunzio spontaneamente. Anzi, ciò che egli era, lo lasciò nascosto, scegliendo di essere servo»
2)(LND) filippesi 2:6 "il quale, essendo in forma di Dio, non considerò qualcosa a cui aggrapparsi tenacemente l'essere uguale a Dio"
Gesù possedeva di suo l'uguaglianza con Dio, ma questo non gli impedì di lasciare questa posizione per farsi uomo, non rimase legato al suo diritto naturale di essere Dio, ma rinunciò a questa unica prerogativa divenendo anche uomo.
3)(Di) “Il quale, essendo in forma di Dio, non reputò rapina l’essere uguale a Dio”.
l'essere uguale a Dio, non era per Gesù una rapina (quindi era una cosa normale per lui).
4)(Con) “il quale, pur essendo in forma di Dio, non ritenne come cosa da far propria avidamente l’essere uguale a Dio”.
In questo caso "essere uguale a Dio" ricopre
il ruolo proprio del padre, da non raggiungere avidamente.
5)(Tnm) "il quale, benché esistesse nella forma di Dio, non prese in considerazione una rapina, cioè che dovesse essere uguale a Dio".
Anche in questa versione (unica in quanto non ne ho trovate di uguali) Cristo avrebbe potuto rapinare il diventare uguale a Dio, ovvero rapinare il ruolo proprio del padre, l'ingenito e la causa prima del figlio e dello Spirito santo, quindi la
possibilità di poter eguagliare il padre esisteva, ed una creatura, anche la più eccelsa e prima, non avrebbe potuto ambire a tanto se non fosse stata la sua natura uguale a quella del padre, gli sarebbe stato impossibile per la sua natura creaturale, poter arrivare ad eguagliarlo, per una creatura questo sarebbe stato irraggiungibile e inimmaginabile.
A proposito di questa interpretazione è utile leggere quanto scritto dal professor Dennis Ray Burk, Jr.
http://www.bible.org/page.asp?page_id=1792
"Propongo che se l'autore avesse inteso mettere sullo stesso piano le due frasi avrebbe potuto semplicemente dichiarare "benche' egli esistesse nella forma di Dio, egli non riguardo' essere nella forma di Dio come una cosa da essere afferrata". Tuttavia, il solo fatto che l'autore scelga di usare una fraseologia differente indica che egli desidera denotare realta' differenti, non quelle sinonime (o equivalenti). La questione si presenta allora in quanto a come questa frase possa essere teologicamente intellegibile; come puo' questa interpretazione avere senso dato che (morfè theou) si riferisce alla essenza preesistente di Cristo come divinita'? Non dovrebbe l'uguaglianza di Cristo con Dio (ton einai isa theon) essere considerata solo un'altro modo di riferirsi alla sua essenza preesistente come divinita'? La risposta all'ultima questione e' "NO" se noi consideriamo la possibilita' che "forma di Dio" si riferisce all'essenza, mentre "essere uguale a Dio" si riferisce alla funzione. Se questo e' il significato del testo, allora le due frasi non sono sinonime: benche' il Cristo fosse una vera divinita', egli non usurpo' il ruolo del Padre. Se HARPAGMOS sia capito stando all'analisi di cui sopra, allora Cristo si dice non aver rapito(rubato) o afferrato l'uguaglianza con Dio.
Benche' egli stesso fosse una vera divinita' eistente nella forma di Dio, non tento' di afferrare quest'altro aspetto che lui stesso non possedeva - cioe' l'uguaglianza con Dio (il padre).
Al contrario, Cristo svuoto' se' stesso. Questo svuotamento consistette nel prendere la forma di un umile servo e nel farsi a somiglianza di uomo. Percio' il contrasto tra i versi 6 e 7 si fa molto chiaro. Cristo, la seconda persona della trinita', non tento' di rapire/rubare il ruolo proprio della prima persona della Trinita', al contrario, Cristo abbraccio' quei doveri che erano stabiliti per la seconda persona, prendere la forma di un servo e rendersi a somiglianza di uomo...
Credo che questa interpretazione apra per noi la strada per vedere una ortodossa subordinazione del figlio nei confronti di DIO Padre. Benche' il Padre e il Figlio siano uno nella loro esenza (che e' esistere entrambi nella forma di Dio), essi sono distinti nelle loro persone. In accordo al piano predeterminato del Padre, egli invia il Figlio nel mondo come un uomo e come un servo. Il Figlio non prova ad abdicare il suo ruolo afferrando uguaglianza funzionale con il Padre. Al contrario, il Figlio ubbidisce al Padre ed entra nella storia umana. In questa sequenza di eventi,vediamo che il Figlio non solo obbedisce al Padre nella sua incarnazione ma anche che egli obbedisce al Padre da tutta l'eternita'. Per questo motivo, se il Figlio non fosse obbediente al Padre e se non fosse distinto dal Padre nella sua persona (e percio' nel suo ruolo e funzione), allora la redenzione sarebbe stata impossibile, il Figlio mai avrebbe obbedito al Padre e non ci sarebbe mai stata una incarnazione...
Proprio come il Padre e il Figlio sono uno in essenza (ossia, sono entrambi divinita') ma distinti nelle loro Persone, cosi' c'e' una realta' corrispondente nelle relazioni terrene fra uomini e donne. Per esempio, sebbene si ordini alle mogli di mantenere un ruolo di obbedienza ai loro mariti (1 Pietro 3:1), mariti e mogli redenti sono uno nella loro posizione davanti a Dio; sono eredi simili della grazia di vita (1 Pietro 3:7). Non c'e' qui ineguaglianza essenziale, ma solo una funzionale. In questa comprensione.l'uomo non e' superiore in valore o significato su sua moglie, piu' che il Padre lo sia su Cristo. Al contrario, il mantenimento dei ruoli stabiliti da Dio e'in fin dei conti una cosa molto gloriosa (Filippesi 2:11)"
I testimoni obiettano che avendolo il padre "sovranamente innalzato" cosa poteva dargli più di quello che aveva prima di incarnarsi, se egli era gia Dio come lui?
A questa domanda lascio rispondere Robertson nel suo commentario:
«Qui soltanto nel N.T. a causa dell'umiliazione volontaria del Cristo Dio lo ha innalzato al di sopra o oltre la condizione di gloria che ha goduto prima dell'incarnazione. Che gloria Cristo ha dopo l'Ascensione che non ha avuto prima in cielo? Cosa ha ripreso in cielo che lui non abbia portato? Chiaramente la sua umanità. È "ritornato al cielo" il Figlio dell'Uomo come pure il Figlio di Dio» - Robertson's Word Pictures of the New Testament (link:
http://www.biblestudytools.com/Commentaries/RobertsonsWordPictures/rwp.cgi?book=php&chapter=002&verse=009&next=010&prev=008)
Un'altra obiezione che fanno i tdg riguarda l'esempio di umiltà menzionato da Paolo prima dell'inno e ci chiedono che umiltà manifestò Cristo se egli era gia uguale a Dio?
La risposta è gia stata data, egli avrebbe potuto rimanere nella sua condizione di vero Dio ma scelse di svuotarsi di questa unica posizione per farsi anche uomo e in questo stato decise di non avvalersi del suo essere anche Dio per proprio tornaconto personale, non è questa umiltà?
Se egli fosse stato invece una creatura, cosa ci sarebbe stato di così eccezionale nel non voler rapinare il farsi uguale a Dio?
Avrebbe potuto mai una creatura diventare "
uguale a Dio"? Uguale al suo creatore?
Saluti
Mario